“Due astronomi scoprono che la Terra verrà colpita da una gigantesca cometa in sei mesi, e che se non verrà trovata una soluzione per fermarla, l’intera umanità sarà destinata a fare la stessa fine dei dinosauri. Naturalmente si mettono subito in contatto con la Casa Bianca per avvertire il presidente (e di conseguenza il mondo intero) del pericolo, ma le cose non andranno esattamente per il verso giusto…” Don’t Look Up.
Non deve essere visto come qualcosa di sorprendente se “Don’t Look Up”, l’ultima opera di Adam McKay, è stato maggiormente apprezzato dagli scienziati che dai critici cinematografici: forse perché questa pellicola, nel raccontare le assurde quanto patetiche (nel senso di pena umana che si prova nei loro confronti) vicende di questi due ricercatori, Randall Mindy e Kate Dibiasky (ben interpretati da Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence) che, nel tentativo di avvertire la popolazione da una minaccia imminente che porterebbe il genere umano all’estinzione, vengono prima ignorati dal governo, poi presi in giro dai media, per poi essere usati e manipolati dal governo stesso, oltre che dai ricchi tycoon delle multinazionali, unicamente per i propri tornaconti personali, molti di loro che da anni si occupano del cambiamento climatico, si sono pienamente rivisti e rispecchiati nell’assurda storia dei nostri protagonisti.
Una storia che poi tanto assurda forse non è, visto come nel mondo reale, ci siano tutt’ora leader politici che negano l’esistenza del climate change, o che agli inizi della pandemia da Covid-19, negavano che il virus SARS-CoV-2 potesse provocare una catastrofe di morti e ospedalizzazioni.
Qualche nome? Donald Trump, ex-presidente degli Stati Uniti, Jair Bolsonaro, attuale presidente del Brasile, Narendra Modi, attuale presidente dell’India (indovinate quali sono i due Paesi in cui sono scoppiate le varianti più pericolose di Covid…). Molte delle recensioni negative al film di Mckay (quantomeno quelle scritte su giornali o riviste super-partes) hanno più o meno tutte sottolineato le stesse cose, dalla superficialità nel trattare certi argomenti così spinosi, alla satira che non fa ridere e non “punge” come dovrebbe (basti leggere la recensione dell’ ”Hollywood Reporter” o quella del “The Guardian”). Ma gli uomini di scienza si sono letteralmente trovati tutti d’accordo nel dire che il film, per quanto orientato sui toni della farsa, sia più reale di quanto non sembri, soprattutto nell’esplicita messa in scena del negazionismo scientifico, come sottolineato dalla recensione dell’astrofisica Rebecca Oppenheimer, pubblicata su “Scientific American”, e soprattutto nella più realistica messa in scena di una possibile (imminente?) crisi climatica del pianeta, e sulla totale passività di governi e popolazione nel reagire all’emergenza, sfruttando la metafora della cometa che sta per schiantarsi sulla Terra, come sottolineato dal climatologo Peter Kalmus, in una sua recensione del film pubblicata sempre sul “The Guardian”.
Dopotutto è lo stesso regista che ha esplicitamente dichiarato che la sua pellicola è nata dal suo “crescente terrore per la crisi climatica e per il fatto che viviamo in una società che tende a collocarlo come una notizia marginale, o in alcuni casi nega che stia accadendo, e quanto questo sia orribile, ma al tempo stesso assurdamente divertente” (qui l’intervista). Il film dunque prende una posizione politica netta sul tema, pur usando le armi del black humor e del demenziale per rendere non solo la vicenda ancora più grottesca di quanto già non sia, ma anche per differenziarlo da tutti i film catastrofici/post-apocalittici realizzati in precedenza, tentando di creare qualcosa di davvero originale, fondendo due generi così distanti tra loro come la commedia satirica e il disaster movie, come dichiarato anche dallo sceneggiatore del film, David Sirota.
Anche questa però è una scelta stilistica che in realtà non deve sorprendere più di tanto, considerato il background artistico e culturale di Adam McKay, cresciuto negli ambienti del “Saturday Night Live”, in cui lavorava come sceneggiatore degli sketch comici, e regista di commedie demenziali di grande successo come “Anchorman: The Legend of Ron Burgundy”, dunque uno abituato al gusto della parodia e alla gestione delle risate. La sua parabola artistica è quantomeno affascinante se si considera che con le sue ultime tre pellicole, “Don’t Look Up” compresa, sia divenuto una sorta di massimo (e forse unico) rappresentante di un “nuovo cinema politico americano”, che utilizza le armi della commedia per mettere alla berlina il potere politico, finanziario e militare del suo Paese: lo ha fatto prima con “The Big Short” (in italiano, “La grande scommessa”), sulla crisi finanziaria del 2008, una pellicola che come “Don’t Look Up” si poggiava su un grande cast (tra gli altri Brad Pitt, Ryan Gosling, Steve Carrell e Christian Bale), seppur fosse più “contenuto” e meno “satirico” nella sua miscela comica, poi con “Vice” (“Vice-l’uomo nell’ombra” da noi), in cui alzava già maggiormente i toni del grottesco, per immergersi nella parabola umana, politica e sottilmente inquietante di Dick Cheney, (interpretato magistralmente da un irriconoscibile Christian Bale) vice-presidente degli Stati Uniti all’epoca di George Bush Jr., considerato la vera “mente” dietro le decisioni più controverse della stessa presidenza Bush, come le tragiche guerre in Iraq e in Afghanistan.
Con “Don’t Look Up” invece Mckay alza nettamente le sue ambizioni, sia stilistiche che narrative, realizzando una sorta di “blockbuster satirico”, che sarebbe fin troppo banale dipingere unicamente come un film “pro-scienza/pro-scienziati”, o addirittura come la pellicola che ha “anticipato il clima mediatico e sociale della pandemia da Covid”. No, perché “Don’t Look Up” è soprattutto una rappresentazione tanto sardonica quanto lucida della “società dello spettacolo” (citando Guy Debord) che sono gli USA oggi. Uno spettacolo che però, pur essendo messo in scena in maniera comica dal film, non è affatto divertente ma risulta anzi quasi sgradevole, forse perché maledettamente reale.
C’è un presidente degli Stati Uniti donna (interpretata da un’ottima Meryl Streep) che pensa solo ai calcoli elettorali, è coinvolta in scandali sessuali, segue unicamente gli interessi dei grandi e ricchi business-man che in cambio finanziano la sua campagna elettorale, e mente ai suoi stessi elettori riguardo l’esistenza stessa della cometa: praticamente una fusione tra Donald Trump e Hillary Clinton, come a dire che per McKay tra Repubblicani e Democratici non c’è sostanziale differenza.
C’è un miliardario (interpretato da Mark Rylance), fondatore di una multinazionale del settore high-tech, che in una situazione del genere riesce a trovare un modo per fare profitto, venuto a sapere che la cometa è ricca di metalli rari che sarebbero molto utili al Paese per la produzione di materiale tecnologico, e ovviamente alla sua azienda, tanto che, sfruttando la sua influenza tra le fila presidenziali, riesce a far cambiare totalmente il piano di distruzione della cometa. Siamo sicuri che i Jeff Bezos e gli Elon Musk di oggi (a cui il personaggio di Rylance si rifà palesemente) non possano ragionare allo stesso modo?
L’angosciante ritratto del Paese viene completato dal mondo televisivo, totalmente votato all’infotainment: infatti quando i due scienziati vanno a parlare della loro tragica scoperta in un popolarissimo talk show, i conduttori minimizzano completamente i loro avvertimenti, finendo anche per schernirli, perché lo spettacolo viene sempre prima di tutto. Persino una questione così delicata come l’annuncio dell’arrivo imminente della cometa, viene presentata alla popolazione nel modo più pomposamente spettacolare possibile, ovvero con un grande concerto in diretta tv della popstar Riley Bina (Ariana Grande), che canta “Just Look Up” (che poi è il “main theme” della pellicola) tra il serio e il faceto.
I social network invece vengono rappresentati per quello che effettivamente sono: il mezzo di comunicazione ad oggi più potente in assoluto, capace di rovinare la vita e la reputazione di una persona in pochi istanti, come succede alla povera Dibiasky, che diviene uno zimbello del web dopo essere andata in esaurimento nervoso in diretta tv (venendo persino rinnegata dalla famiglia e dal fidanzato), così come di diventare un’improvvisa star, come successo invece al collega Mindy, ma soltanto per il suo look (!), non di certo per i suoi avvertimenti sulla cometa, che non fregano a nessuno.
I social network sono però soprattutto uno strumento capace di alterare completamente la percezione della realtà, polarizzando ancora di più il dibattito pubblico su qualsiasi tema (e lo abbiamo visto bene con la pandemia…): la divisione netta che si crea nella popolazione tra chi crede che la cometa sia una minaccia effettiva e il pianeta sia destinato a soccombere, e chi invece ne nega completamente l’esistenza, affermando che non ci sia alcuna minaccia in atto, è favorita e spinta dagli stessi social media, con i primi (i cosiddetti “pro-scienza”) guidati dal “movimento virtuale” fondato dai due scienziati, il “Just Look Up”, mentre i secondi (i cosiddetti “negazionisti”) hanno come portavoce il figlio della stessa presidente, interpretato da Jonah Hill, che guida il contro-movimento anti-scientifico “Don’t Look Up”.
Il film di McKay non è un film che ragiona sulla fine del mondo, perché per il regista il (nostro) mondo non avrà certo bisogno di un fattore esterno proveniente dallo spazio per distruggersi, ma sarà probabilmente distrutto dagli stessi uomini che lo comandano, perché corrotti, incompetenti, avidi e ignoranti. L’unica cosa che possiamo fare per non deprimerci sul serio, sembra dirci McKay, è tentare di riderci sopra: e “Don’t Look Up” è un’opera che fa ridere, e questo sembra bastare e avanzare oggi per raccontare il potere e i potenti.