“Nel 1991, durante le vacanze di Natale con la famiglia reale, la principessa Diana Spencer decide di mettere la parola fine al suo matrimonio con il principe Carlo, da tempo in crisi.”
Spencer, nono lungometraggio del regista cileno Pablo Larraìn, non è un biopic su Lady Diana: e non tanto perché si concentra unicamente su un brevissimo intervallo della sua vita, ovvero durante le festività natalizie passate nella residenza della famiglia reale di Sandringham nel dicembre del 1991 (in cui Diana prende, forse, la decisione di divorziare dal principe Carlo), ma soprattutto per come Larraìn decide di mettere in scena questo particolare momento della compianta principessa del Galles, rappresentandolo come un incubo ad occhi aperti, in cui si mescolano sogno, realtà e allucinazione, facendo emergere i fantasmi di un passato che torna prepotentemente a galla. La crisi d’identità di Lady D, che finisce per sfiorare la pazzia, è ampiamente valorizzata dall’interpretazione di una straordinaria Kristen Stewart, che si conferma una delle più grandi attrici dell’ultimo decennio.
Sin dai primi minuti della pellicola Larrain sottolinea lo smarrimento identitario e psicologico della protagonista, che si perde con la sua macchina nella tetra e nebbiosa campagna inglese, non riuscendo a trovare la strada per arrivare nella residenza: “Where the fuck am I?” è la prima battuta che da lei viene pronunciata nel film.
I continui primi piani sul suo volto, mentre cerca la strada giusta, ne risaltano immediatamente la confusione e lo spaesamento, perché in fondo non vorrebbe davvero andare lì, accerchiata da una nobiltà a cui non si sente più di appartenere. Non è un caso che Diana, una volta arrivata nella residenza, abbia un approccio freddo e distaccato con ogni membro della Royal Family, mentre le uniche persone con cui a un rapporto di amicizia realmente sincero sono uno chef e una costumista, due membri della servitù, e soltanto questo basterebbe per evidenziarne il distacco dal mondo aristocratico.
Aggiungiamoci la sua passione per la musica pop (in una scena canta con i suoi due figli una canzone dei Mike & The Mechanics, gruppo pop/rock molto famoso in Gran Bretagna all’epoca) e addirittura per il cibo da fast food (verso la fine del film infatti pranza in un McDonald’s) e ci si può benissimo accorgere che il distacco tra lei e il mondo nobiliare è sin troppo evidente (queste abitudini da “cittadina comune” sono confermati anche da testimonianze ufficiali sulla vera Diana.)
Il lusso impeccabile della residenza, gli abiti eleganti dei suoi inquilini, ed il cibo così abbondante e sfarzoso, sarebbero una fonte di attrazione per molti, ma non per Diana, che ne prova anzi repulsione, sentendosi intrappolata in una gabbia dorata da cui vorrebbe uscire il prima possibile. Soprattutto il cibo in questo film è stato rappresentato dal regista in modo “volutamente bello e invitante” per metterlo in contrasto con i disturbi alimentari della principessa, costretta a mangiare piatti abbondanti e gustosi anche quando non vorrebbe/potrebbe, finendo poi per vomitarlo, come logica conseguenza. Il luogo stesso diventa sempre più claustrofobico per la principessa, un nuovo “Overlook Hotel” uscito direttamente da “Shining”, un castello popolato da fantasmi che non se ne sono mai andati, e che ora Diana riesce a “vedere”.
I fantasmi sono da un lato quelli della sua infanzia, che Diana rivive con gioia (tanto da mettersi a ballare in una scena, immaginandosi in età adolescenziale): una gioia che si rivela però effimera, e che si scontra con l’oppressiva realtà degli obblighi nobiliari, a cui deve adempire e a cui vorrebbe sottrarsi. Dall’altra parte c’è il fantasma di Anna Bolena, moglie di Enrico VIII Tudor e regina d’Inghilterra e Irlanda per circa quattro anni (dal 1533 al 1536), che compare in scena, o meglio nella mente instabile della principessa, dopo che quest’ultima scopre un libro sulla sua vita, iniziando un inquietante processo identificativo con la sua figura: una damigella di corte divenuta regina dopo essere stata amante del re, ed aver provocato de facto lo scisma della Chiesa anglicana con quella romana a causa della sua relazione con Enrico (infatti dopo che il pontefice si oppose alla richiesta di divorzio di Enrico dall’allora regina Caterina, lo stesso re si autoproclamò capo della Chiesa britannica), per poi, dopo essere stata incoronata nuova regina, fare una brutta fine pochi anni dopo, venendo decapitata con l’accusa di tradimento coniugale con alcuni cortigiani. Anna Bolena si è sempre dichiarata innocente alle accuse rivoltale, anche se una volta andata incontro alla morte, l’accettò con grande dignità. Diana crede di essere perseguitata dal suo spirito, temendo quasi di dover andare incontro al suicidio per potersi forse “liberare” definitivamente da una condizione sociale che ormai la soffoca, ma alla fine, dopo aver evitato la più tragica delle opzioni, come gesto simbolico della sua (ri)trovata libertà decide di distruggere la collana di perle che il marito le aveva regalato.
Sarebbe sin troppo facile tentare di fare un paragone col precedente “biopic al femminile” di Larraìn, ovvero “Jackie”, incentrato sulla figura di Jacqueline Kennedy, forse perché entrambi raccontano di una donna politicamente potente ma al tempo stesso mentalmente fragile, seppure i traumi che hanno dato origine alla loro condizione psicologica siano di differente natura (nel caso di “Jackie” la perdita del marito nell’attentato a Dallas del 1963, mentre per “Spencer” la crisi coniugale con il principe Carlo), anche se il regista stesso ci tiene a rimarcare le differenze tra le due pellicole, affermando che “Jackie è un film sul dolore e sulla memoria, è come un requiem. Spencer è un film su identità e maternità, è un film sulla libertà.” In fondo, riprendendo le parole del regista, Spencer è anche la storia di una madre che vorrebbe crescere i suoi due figli (William e Harry, futuri eredi della Corona) in modo indipendente, senza condizionamenti e senza imposizioni dall’alto: e l’unico modo per riuscirci è ovviamente quello di spezzare le catene di un mondo in cui tutto è “bello da vedere”, ma a cui manca il libero arbitrio.