UN ALTRO MONDO: IL LAVORO OGGI, TRA ALGORITMI, PROFITTO E (DIS)UMANITA’

Philippe e sua moglie si stanno per separare, a causa di una relazione ormai irrimediabilmente logorata dalle pressioni del lavoro. Dirigente di un grande gruppo industriale, l’uomo non sa più come soddisfare le richieste incoerenti dei suoi superiori: ieri volevano che fosse un manager, oggi vogliono un esecutore. Per Philippe è dunque arrivato il momento in cui decidere cosa fare della propria vita.”

Philippe Lemesle/Vincent Lindon in una scena del film

Dopo essersi messo nei panni di un disoccupato di mezza età alla disperata ricerca di un lavoro ne “La legge del mercato” (2015), e in quelli di un combattivo sindacalista in lotta per salvare un’ azienda dalla chiusura in “In guerra” (2018), stavolta Vincent Lindon (ormai consacratosi come uno dei massimi attori europei del decennio), si mette “dall’altra parte della barricata”, nel terzo capitolo della cosiddetta “trilogia sul lavoro” di Stèphane Brizè, “Un altro mondo” (2021), in cui presta il volto stanco e stressato di Philippe Lemesle, manager che lavora nella succursale francese di una multinazionale americana, la fittizia Elsonn, il quale si ritrova improvvisamente a dover prendere una decisione drastica, impostagli dai suoi superiori: un taglio corposo del personale, da risolversi anche in fretta.

Come se non bastasse l’enorme peso di una scelta così umanamente difficile (la responsabilità di lasciare a casa centinaia di famiglie, abbandonandole al loro destino, richiede una freddezza emotiva assoluta), nella vita privata le cose per Philippe vanno a rotoli: sua moglie si vuole separare da lui, accusandolo di aver pensato unicamente alla dimensione lavorativa, trascurando totalmente quella familiare. Anche il rapporto col figlio è pessimo, con quest’ultimo ormai chiuso del tutto in sè stesso, ad immaginarsi scenari presenti solo nella sua testa.

Dunque Philippe si trova di fronte ad un bivio: rispettare gli ordini dei suoi capi e continuare a fare il suo lavoro come se niente fosse (lasciando da parte qualsivoglia sentimento), oppure tentare di salvare il salvabile, mostrando un minimo di compassione umana per una volta nella vita, e nello stesso tempo tentare di riallacciare i compromessi rapporti con moglie e figlio. Sapendo però che quest’ultima scelta potrebbe costargli la sua posizione privilegiata.

Ad oggi, non c’è nessun regista che sappia parlare, rappresentare e riflettere sul mondo del lavoro contemporaneo in maniera così diretta e dettagliata come il francese Stèphane Brizè, il quale ha pienamente raccolto l’eredità del cinema di impegno civile e sociale di Ken Loach, portandolo in territorio francese. Un mondo lavorativo dominato dall’instabilità e dal precariato, in cui gli uomini, i lavoratori e le lavoratrici sono ormai considerati numeri indefiniti prima che esseri umani in carne ed ossa: degli algoritmi che, se non vanno più bene per le logiche aziendali, si possono cancellare in poco tempo. Logiche aziendali che mettono in primo piano come valore assoluto il profitto, l’utile da realizzare in borsa prima di tutto, per difendere a tutti i costi la propria posizione privilegiata.

Ed è infatti quello che accade nel film, nella scena della riunione aziendale, in cui Philippe propone ai colleghi e al CEO americano dell’azienda, collegato online via Zoom, il suo piano alternativo per stabilizzare la situazione finanziaria della società (ovvero la rinuncia ad alcuni bonus aziendali), tentando in ogni modo di evitare di lasciare sul lastrico da un giorno all’altro gli operai e le loro famiglie. Piano che però viene rigettato senza troppi problemi dal consiglio di amministrazione, poichè la logica della massimizzazione dei profitti viene prima di tutto, e qualsiasi cosa le sia d’ostacolo non può essere neanche presa in considerazione. Brizè, senza troppi giri di parole, descrive tutto questo come una forma di violenza permessa dalla legge: “Abbiamo organizzato il mondo, abbiamo fatto delle regole del gioco, delle leggi di mercato che fanno sì che tutto questo possa essere fatto tranquillamente. Ma tutto ciò è malato. È questa la realtà di questo mondo. Di conseguenza questa violenza genera delle malattie fisiche e psichiche, delle morti. Ci sono delle persone di mezzo.” 

Appunto, le persone. Il regista francese non si limita a rappresentare soltanto le controverse dinamiche lavorative delle multinazionali, ma indaga anche le conseguenze nella sfera privata che queste dinamiche hanno. Philippe è un uomo che ha messo il lavoro da manager davanti a tutto e tutti, decidendo di sacrificare completamente gli affetti familiari, e ora si ritrova a pagarne le conseguenze: da un parte si sente “tradito” dall’azienda stessa, dopo essersi illuso di essere uno che “conta” davvero, e che invece vale meno di quello che pensava, essendo costretto a prendere decisioni che mai avrebbe voluto (e pensato) di prendere, mentre dall’altra parte (nella sfera intima) i troppi anni passati ad ignorare moglie e figlio, hanno anche essi dei conti salati da pagare. Detto della prima che chiede la separazione da un marito che ormai ritiene essere un corpo estraneo dentro la casa, è la condizione mentale del figlio ad essere seriamente preoccupante, visto che cade vittima di una truffa online senza rendersene minimamente conto (crede che Mark Zuckerberg lo voglia assumere per lavorare in Facebook!): ed è solo in quel momento che Philippe si rende conto di essere del tutto mancato come padre, per un figlio che si è dimenticato di educare.

La crisi esistenziale/mentale del figlio altro non è che il risultato della somma della altre due crisi presenti nel nucleo familiare: in primis la crisi lavorativa del padre, a sua volta causa scatenante della crisi coniugale della madre. Come aggiunto brillantemente dal regista “Il problema con il personaggio interpretato da Vincent Lindon (…) è la sua incapacità di mettere in discussione le ingiunzioni che riceve. E finché un individuo non si permette di mettere in discussione il suo ambiente, è prigioniero di se stesso. E poiché il mondo aziendale è strutturalmente pieno di ingiunzioni ingestibili, i dipendenti portano inevitabilmente a casa i loro dubbi e le loro ansie, una dinamica che porta all’esplosione del nucleo familiare.”

Tutti questi momenti di tensione emotiva che dominano la pellicola vengono rappresentati da Brizè con una regia “invisibile”, tipica del suo cinema, in cui l’utilizzo della macchina a mano è ormai una costante, per dare all’opera un voluto tocco semi-documentaristico. Quello del regista transalpino è un cinema costruito e plasmato sul suo attore protagonista, Vincent Lindon, praticamente sempre in scena in ogni singolo fotogramma della pellicola. I suoi gesti, i suoi sguardi, il suo linguaggio e i suoi movimenti sono il nucleo portante della pellicola, ciò che la rende possibile, viva. Sembra apparentemente un’ operazione banale (fondare tutto il film unicamente su un singolo attore/personaggio), ma in realtà è una precisa dichiarazione d’intenti dell’autore: l’attore è il tramite del regista; nell’attore c’è il punto di vista del regista sul mondo; l’attore fa la regia dell’opera. Una scelta brillantemente evidenziata dal critico cinematografico Pier Maria Bocchi nella sua recensione del film per “Cineforum“, in cui evidenzia che “Nell’attore Brizé crede a tal punto che sembra conferirgli la regia. Ossia il peso delle misure da prendere, delle proporzioni da tenere. L’attore è nodo nevralgico ma è anche, e prima di ogni cosa, strumento di visione. Nel cinema di Stéphane Brizé l’attore è chiamato a costruire la scena, a montarla, e darle carattere e movimento.” 

Un altro mondo” non è come molti potrebbero pensare alla prima visione soltanto un film morale e politico (mai moralista e ideologico, però), che indaga in maniera eccelsa sulle contraddizioni del sistema lavorativo contemporaneo: è anche, e soprattutto, un film umanista, perchè mette al centro dell’opera un uomo, con le sue fragilità e i suoi problemi, che si trova schiacciato da un mondo in cui non si sente più di appartenere, un mondo in cui i sentimenti e le emozioni sono sparite e hanno lasciato il posto alla freddezza dei numeri e della tecnologia. Un altro mondo, che riporti l’Uomo al centro del lavoro, dell’economia e della vita, potrà essere nuovamente possibile?

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