MEN: IL FOLK-HORROR FEMMINISTA E INCOMPIUTO

A seguito di una tragedia personale, Harper decide di lasciare Londra per trasferirsi da sola nella rigogliosa campagna inglese, sperando di trovare un luogo dove curare il dolore che l’accompagna. Ma dai boschi circostanti sembra materializzarsi qualcosa o qualcuno che inizia a perseguitarla…

L’incubo per la protagonista ha inizio in fondo ad un tunnel

Il folk-horror negli ultimissimi anni è ritornato prepotentemente in auge: per chi non fosse familiare con questo sottogenere del cinema dell’orrore, si tratta di pellicole ambientate in contesti rurali, di solito boschi o campagne, aventi come protagonisti uomini e/o donne isolate dalla civiltà tecnologica e completamente immersi in una natura apparentemente tranquilla e pacifica, ma che in realtà nasconde segreti oscuri e violenti. Nato alla fine degli anni Sessanta in Gran Bretagna, grazie a pellicole come “Il grande inquisitore” (“Witchfinder General“) di Michael Reeves (1968) e “The Wicker Man” di Robin Hardy (1973), è poi andato sempre più scemando nel corso degli anni, finchè nel 2015 il debuttante Robert Eggers con il suo “The Witch“, riuscì nell’impresa di rivitalizzarlo, dando così inizio ad una nuova “ondata” per il folk-horror che dura ancora oggi, grazie al ritrovato interesse delle case di produzioni (sia mainstream che underground), per merito anche del notevole incasso che il film di Eggers, in rapporto al budget iniziale, realizzò in quell’annata.

A questo (sotto)genere ci si è approcciato uno dei registi più talentuosi e promettenti del decennio, ovvero l’inglese Alex Garland, già apprezzato scrittore con “The Beach” (a cui l’omonimo film con Leonardo DiCaprio non rende per nulla giustizia), poi altrettanto apprezzato sceneggiatore per il connazionale Danny Boyle (“28 giorni dopo” e “Sunshine” vengono dalla sua penna) e infine acclamato regista, con due opere fantascientifiche di notevole fattura nella messa in scena e originali nelle idee, “Ex Machina” (2014) e “Annientamento” (“Annihilation“, 2018).

Il suo debutto nel cinema dell’orrore (e dunque nel folk-horror) è “Men” (2022), storia di Harper (Jessie Buckley) una donna che, dopo la tragica morte (suicidio?) del marito, decide di trasferirsi in un piccolo paesino di campagna, prendendo casa in una grande villa isolata dal paese stesso e immersa totalmente nella natura, nel tentativo di dimenticare il trauma subito. Dopo aver conosciuto l’affittuario della residenza, Geoffrey (Rory Kinnear), ed essersi fatta dare le chiavi del luogo, iniziano ad accadere avvenimenti sempre più strani ed inquietanti intorno a lei: dapprima nota che un uomo nudo la segue mentre sta camminando per la campagna, per poi accorgersi, una volta tornata, impaurita, nella residenza, che quell’individuo è riuscito ad infiltrarsi nel giardino di casa. Dopo aver chiamato la polizia, che porta via l’ospite indesiderato, Harper decide di andare a visitare il piccolo paese per fare la conoscenza dei suoi pochi abitanti, che sembrano però avere tutti qualcosa di strano: somigliano tutti inquietantemente a Geoffrey…

Ci sono tante cose che funzionano perfettamente in “Men“, che potenzialmente lo avrebbero reso uno degli horror più interessanti del decennio, ma purtroppo ce ne sono altrettante che invece non convincono affatto: se sommiamo pregi e difetti, alla fine il risultato finale non è certamente da buttare via, anche se sa molto di occasione sprecata.

Partendo dai lati positivi dell’opera, uno di questi è sicuramente la messa in scena di Garland, capace di generare un senso continuo di pericolo imminente nello spettatore, con inquadrature claustrofobiche che dominano negli interni della villa (stile “trilogia dell’appartamento” di Roman Polanski) caratterizzate da un colore rosso brillante e pulsante, che ricorda inevitabilmente quello dell'”Overlook Hotel” dello “Shining” di Stanley Kubrick, e la scuola di danza del “Suspiria” di Dario Argento: il colore del sangue, della tragedia che sta per arrivare, ineluttabilmente. Il paesaggio invece, quando inquadrato nelle ore diurne da campi lunghi e piani sequenza, ispira pace e tranquillità, con il verde (anch’esso molto acceso) della campagna e del bosco locale, che si prende la scena: quando però cala la notte, lo stesso paesaggio di prima si trasforma improvvisamente in un luogo misterioso, inquietante e minaccioso, in cui oscure presenze si manifestano.

Che Garland e i suoi collaboratori fossero una garanzia dal punto di vista tecnico lo si sapeva (oltre alla regia e alla fotografia, anche la colonna sonora dell’ex-membro dei Portishead, Geoff Barrow, è da segnalare positivamente), per non parlare dell’interpretazione dei quasi unici due attori della pellicola, ovvero Jessie Buckley, nella parte di Harper, la donna in fuga dal tragico passato e dalle minacce presenti, e soprattutto Rory Kinnear, nel ruolo (SPOILER…) di tutti gli uomini presenti in scena con cui Harper avrà a che fare nel corso del film: l’affittuario, il prete maschilista, il poliziotto negligente, il bambino psicopatico, l’uomo nudo ecc…

Il principale problema di “Men” non è certamente la forma, di pregevole fattura, ma la sostanza, il modo in cui viene raccontata questa storia, ovvero rendendola da un lato inutilmente complessa e dall’altro banalizzando la metafora che il film vorrebbe/dovrebbe dare.

Il messaggio femminista di fondo dell’opera di Garland è sin troppo chiaro , come specificato in più di un’occasione in varie interviste dallo stesso regista, ovvero il voler realizzare un film “sull’orrore di essere un uomo, e su ciò che gli uomini fanno alle donne, il tutto raccontato da un punto di vista maschile sì, ma consapevole” . Un’opera sulla mascolinità tossica, sul patriarcato, che prende una posizione netta (femminista, come detto) sul tema. Si apprezza sicuramente l’onestà intellettuale di Garland nell’essersi schierato così apertamente in un dibattito mai come di questi tempi così acceso, ma questo non basta per giustificare i difetti della sua opera.

Il regista sceglie di rappresentare la condizione della donna protagonista (e di riflesso delle donne in generale) mediante simbolismi arcaici e mistici, che però la maggior parte delle volte sono talmente banali da non riuscire a lasciare veramente il segno: la mela nel giardino come simbolo del peccato originale, la scultura nella chiesa che simboleggia il patriarcato, gli uomini come mostri (letteralmente, visto il finale)… Tutto sin troppo superficiale, tentando di complicare inutilmente una storia comunque interessante, ma sfruttata male: ovviamente gli unici personaggi positivi sono le altre due donne che compaiono brevemente nell’opera, ovvero l’amica della protagonista, con cui si sente per telefono, e la poliziotta che le dà ascolto nell’episodio dell’invasione della casa…

La cosa peggiore del film è però il mancato approfondimento psicologico della stessa protagonista, Harper, la cui personalità per tutta l’opera non riesce mai a venire fuori (è una donna forte o debole?), ed anche il suo passato burrascoso viene narrato poco e male: si è vero, nel corso dell’opera si vedono alcuni flashback sulla rottura della relazione con l’ex marito, che reagisce violentemente alla volontà di lei di porre fine al matrimonio, ma non si capiscono mai i veri motivi di questi litigi, e le colpe della donna, che lei stessa ammette, non vengono minimamente approfondite, e questo è un peccato.

Il finale lascia sicuramente il segno dal punto di vista estetico, in cui (SPOILER) l’uomo-mostro si rigenera continuamente e infine rinasce: sicuramente Garland avrà visto “Society-The Horror” di Brian Yuzna (1989), anche se il suo film non possiede l’ironia grottesca del lavoro del collega americano, prendendosi invece molto sul serio in ciò che vuole raccontare. E questo va benissimo, peccato solo che non sia raccontato per il meglio, in una pellicola che vorrebbe/dovrebbe essere morale, ma che finisce per essere soltanto moralista. Con un ottimo gusto estetico però, e questo a Garland bisogna riconoscerglielo, ma si spera che il suo prossimo lavoro possa avere anche una sostanza maggiormente convincente.

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