Quando la tv salvò Kennedy. Il primo dibattito presidenziale televisivo della storia

Il 26 settembre 1960 Kennedy e Nixon si sfidarono nel primo dibattito presidenziale televisivo della storia. Il senatore democratico e il vicepresidente repubblicano concordarono quattro dibattiti che passarono alla storia con il nome di “Great Debates”. Il primo, seguito da più di 64 milioni di telespettatori rappresenta un caso emblematico di comunicazione politica.

John F. Kennedy, Don Hewitt, and Richard M. Nixon on September 26, 1960 in Chicago.

Il dibattito diede esiti diversi tra telespettatori e ascoltatori radiofonici dando vita al ‘telemito’ secondo il quale il nuovo medium è in grado di modificare la percezione degli spettatori dando un volto ai protagonisti della politica e ridimensionando quell’aura simbolica che li avvolge e li rende poco umani o meno ‘pop’. Potremmo davvero considerare questo evento mediale all’origine dei talk-show politici dove la politica si adatta allo schermo, ai tempi, e al linguaggio televisivo.

Tuttavia, gli studiosi di comunicazione si interrogano ancora sul perché i telespettatori considerarono J. F. Kennedy vincitore del dibattito mentre gli ascoltatori radiofonici optarono per R. Nixon.

Il dato eclatante proveniva dall’agenzia Slidinger che su un totale di 200 risposte valide dava Nixon percepito come vincente alla radio dal 48,7 % dagli intervistati, mentre Kennedy solo dal 21%. Alla tv invece, la percezione sarebbe stata favorevole a Kennedy per il 30,2% e a Nixon per il 28,6%. Vale la pena ricordare però che i radioascoltatori erano numericamente inferiori rispetto ai telespettatori (61,4 milioni contro 270 milioni) e che il campione scelto, secondo gli studiosi, non rappresentava bene il totale dell’audience.

Il video integrale del primo dibattito tra Kennedy e Nixon.

È stata dunque la tv a salvare Kennedy, così come scrisse il giornale Broadcasting nel 1960?

È stato Nixon, secondo gli opinionisti, a metterci del suo per perdere il primo dibattito televisivo della storia. Mentre Kennedy appariva sicuro di sé ed esprimeva attraverso la sua postura compostezza e freschezza, Nixon rivolgeva spesso lo sguardo all’avversario o al conduttore finendo per apparire insicuro, affannato e scomposto. La leggenda vuole che anche la madre del vicepresidente si preoccupò per la sua salute dopo averlo visto in tv. C’è da dire che Nixon era reduce da un intervento al ginocchio e da 12 giorni di convalescenza che gli costarono un’infezione da stafilococco.

Secondo lo storico W.J. Rorabaugh, prima del dibattito, il leader repubblicano si chiuse nella sua stanza d’hotel per studiare senza confrontarsi con il suo staff, scendendo dall’auto davanti gli studi della Cbs di Chicago urtò il ginocchio operato contro la portiera. Fu quell’immagine sofferente a entrare nelle case di circa 70 milioni di persone. Un’immagine non adatta a rivestire la carica presidenziale negli anni incerti della guerra fredda.

Nixon si presentò con un abito in pied-de-poule che si confondeva con lo sfondo grigio dello studio, il suo volto appariva cupo e teso anche per via di un accenno di barba che lo rendeva poco definito. Il simbolo della sconfitta fu considerato da tutti il labbro e la fronte umettate di sudore del vicepresidente, asciugate continuamente con un fazzoletto da taschino.

Kennedy in abito scuro e sagomato si distaccava dallo sfondo dello studio. Se Nixon venne percepito come l’uomo vecchio, usurato dalla politica, espressione dell’ultimo governo in carica, il senatore democratico incarnava un certo tipo di glamour e il cambiamento che gli americani auspicavano.

Richard Nixon asciuga il labbro umettato di sudore con un fazzoletto da taschino.

Scrisse Marshall McLuhan, teorico dei media e spettatore dell’evento:

Il guaio di Nixon fu di offrire un’immagine netta, e ad alta definizione, a un medium freddo come la TV che conferiva a questa immagine un’impressione di falsità. Il medium freddo della TV non può invece tollerare il tipico, che sottrae allo spettatore il suo compito di chiudere o completare l’immagine. Il presidente Kennedy non sembrava né un miliardario né un politico. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, un droghiere, un professore, un allenatore di football. La sua dizione non era tanto precisa e scattante da rovinare la macchina piacevolmente nebulosa della sua espressione e del suo profilo. Poteva passare dal palazzo alla baracca di legno, dalla ricchezza della Casa Bianca, seguendo il modello del capovolgimento e dello sconvolgimento proprio della TV

in Undestanding Media, 1964

Per anni il mondo accademico si è interrogato su un media tanto potente quanto espressivo che fa dell’immagine, più immediata e descrittiva, il suo punto di forza rispetto alla ‘voce’ radiofonica, che premia e predilige, secondo i più, la razionalità e l’argomentazione. Secondo alcuni studiosi Nixon veniva considerato vincitore dai radioascoltatori perché il suo timbro era determinato, convincente, la sua voce risonante e profonda rispetto all’accento in stile Boston-Harvard di Kennedy. L’accento di Kennedy suonava strano, forse effeminato, si prestava alla satira ma in televisione veniva percepito in maniera differente.

La differenza di percezione tra telespettatori e radioascoltatori è stata messa in dubbio da alcuni studiosi che sostennero che gli elettori repubblicani, più concentrati nelle zone rurali a sud del paese, seguirono il dibattito utilizzando il mezzo radiofonico mentre i democratici, concentrati nel nord industrializzato e più sviluppato, avevano a disposizione il televisore.

Se ci concentriamo sul medium e non sul messaggio (come vorrebbe McLuhan che opera una divisione tra media caldi e freddi per sostenere la sua tesi) possiamo dare per vero il fatto che la televisione ha premiato Kennedy procurandogli un enorme vantaggio sullo sfidante repubblicano.

Conta più come si dicono le cose o le cose che vengono dette?

Di sicuro la tv ha premiato il leader democratico e continua anche oggi a cogliere espressioni, dettagli, e spettacolarizzare il dibattito politico (basti pensare ai talk-show in cui vari leaders sostengono proprie argomentazioni senza entrare troppo nel merito delle questioni). Ma se ci concentriamo in sostanza sulla politica e sui temi trattati nel ‘Great Debate’ possiamo affermare che dal primo nessuno uscì realmente vincitore. Entrambi gli avversari sostennero le proprie posizioni, argomentandole al meglio per cercare di persuadere il pubblico a casa.

L’unico passo falso di Nixon riguardò l’opening statement che seguiva quello di Kennedy. Il candidato repubblicano diede per un minuto ragione allo sfidante fino ad affermare: “I subscribe completely to the spirit that Senator Kennedy as expressed tonight, the spirit that the United States should move ahead”. Peccato per Nixon che Kennedy avesse usato quel “moving ahead” per sottolineare la volontà degli americani nel prendere un’altra strada rispetto a chi li aveva governati sino a quel momento (Nixon incluso). Il leader repubblicano accettò il frame dell’avversario che prevedeva un superamento dello status quo e del vecchio. Per alcuni rappresentanti del Partito Repubblicano fu questa ‘rincorsa’ di Nixon a trasformare il dibattito in un disastro.

Il primo dibattito della storia ci insegna che la politica è ormai il punto di incontro tra forme d’espressione e contenuto. La multimedialità, oggi, presuppone che le dichiarazioni, i dibattiti, e i vari contenuti di una campagna elettorale si adattino alle diverse piattaforme senza perdere la propria efficacia e dunque l’efficacia del messaggio scelto.

Qualcosa la imparò anche Nixon che per il terzo dei quattro “Great Debates”, come riportato dallo specialista di televisione Stephen Battaglio sul Los Angeles Times, assunse il truccatore dei divi Claude Thompson e volle nello studio l’aria condizionata programmata sui 18 gradi.

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