L’annuncio del cambio di conduzione per Che tempo che fa e il passaggio, di conseguenza, del conduttore Fabio Fazio a Discovery mettono sul piatto una questione di vitale importanza nella gestione della cosa pubblica e del modo di intendere il potere. Quest’ultimo evento non è che il risultato di una forzatura che ha portato l’esecutivo a stringere la morsa sulla televisione pubblica, facendo dimettere l’amministratore delegato Carlo Fuortes e mettendo al suo posto un uomo di fiducia preparando già il passaggio di testimone per un fedelissimo quale Gianpaolo Rossi.
Epurazioni, porte girevoli e nomine politiche
Questo giro di nomine non è il primo che ha coinvolto il governo in carica e mostra una determinazione ostinata e metodica nel cercare di occupare più posti di potere e influenza possibili. L’idea che sembra quasi poterne ricavare è quella della volontà degli eterni esclusi (gli eredi della fiamma sociale, infatti, sono stati dalla nascita della Repubblica a oggi considerati inconciliabili con la concertazione democratica a causa dei loro collegamenti con un passato non proprio roseo) di gestire finalmente la cosa pubblica come piace a loro. Allo stesso tempo dieci anni di guida quasi ininterrotta del paese da parte del Partito Democratico in vari modi e attraverso le sue più disparate manifestazioni hanno creato un sistema di potere e vertici che viene utilizzato dagli attuali partiti di maggioranza per giustificare e legittimare l’azione che stanno svolgendo.
Se l’hanno fatto gli altri non vedo perché ora si debba agire diversamente. Se questo per certi versi è vero, il modo in cui l’esecutivo si è intestardito sul tentativo di spodestare l’amministratore delegato Rai non ha precedenti e dimostra una fame quasi bulimica per l’occupazione e l’espansione della propria sfera di influenza. Il fatto che una forzatura di questo tipo abbia riguardato proprio la televisione pubblica non è che la dimostrazione chiave dell’importanza che la Rai riesce ancora oggi a rivestire nonostante l’apparente potere delle reti private e la sempre minore capacità del mezzo televisivo di raggiungere la totalità dei componenti della società.
La Rai dei partiti e quella dell’esecutivo
Non è un caso che la storia della televisione di stato si sia spesso intrecciata con il tentativo di controllarla e piegarla alle esigenze dei partiti e con la volontà – almeno sulla carta – di utilizzare il mezzo in un modo che garantisse pluralismo informativo e consentisse lo sviluppo di una opinione pubblica il più possibile democratica. L’idea alla base del monopolio televisivo tra gli anni ’50 e la fine degli anni ’80 riguarda infatti il tentativo dello Stato di gestire al meglio una materia -quella della comunicazione di massa- con un forte impatto sulla vita politica e propensa per natura a concentrarsi in poche mani.
In un’ottica minghettiana della prevalenza dell’interesse generale su quello privato lo Stato italiano impone il monopolio sulle frequenze radiotelevisive (allora scarse e posizionate in un mercato di difficile ingresso) sia per mantenere il controllo di un mezzo con potenzialità politiche immense, sia per garantire un servizio il più possibile democratico e pluralista. Alla base di questa decisione si trovava la volontà di utilizzare il mezzo al meglio delle possibilità pubbliche facendolo diventare strumento educativo, informativo e di intrattenimento.
Se sulla carta questa soluzione permette di costruire una televisione libera da vincoli commerciali e da un possibile oligopolio privato, allo stesso modo pone il difficile rapporto tra esecutivo e azienda dove quest’ultima rischia di diventare unicamente un’emanazione della volontà del governo in carica. Le vicende legate a questo problema sono ampie e coprono un periodo che va dalla nascita della Rai fino alla forzatura del governo Meloni, ma in generale si possono riassumente come il tentativo attraverso varie sentenze costituzionali e riforme di vario tipo di creare una tv di stato libera dalle ingerenze dell’esecutivo.
Nel corso dei decenni si assiste ad un passaggio del baricentro del controllo della governance Rai prima dall’esecutivo al parlamento e quindi ai partiti (da qui la oramai celeberrima lottizzazione) e poi nuovamente a favore dell’esecutivo. L’attuale sistema di nomina dei vertici Rai compone un Consiglio d’Amministrazione di sette membri: due di essi vengono nominati dalla Camera, due dal Senato, due dal Consiglio dei ministri e uno dall’assemblea dei dipendenti. Questa composizione determina un problema strutturale per cui tendenzialmente il governo del paese nomina il governo della Rai e questo pone un serio limite alla missione del servizio televisivo pubblico.
Infatti, il potere dell’esecutivo sulla nomina dei vertici Rai viene rappresentato dalla ampia preponderanza delle nomine politiche su quelle tecniche o funzionali all’azienda. Ora come ora il governo controlla non solo le due nomine a cura del Consiglio dei ministri ma in linea teorica anche i quattro nominati dalle camere che, garanzie a parte, rappresentano comunque l’espressione di una maggioranza politica e quindi si fanno portatori di una visione parziale e nemica degli interessi generali del mezzo pubblico.
Il pluralismo che manca
È importante ricordare infatti che lo scopo della Rai si inserisce nel tracciato costituzionale dell’Articolo 21 attraverso la garanzia di un pluralismo sia attivo che passivo del mezzo televisivo. Se la prima forma di pluralismo nominata riguarda la necessità di garantire una pluralità di voci diverse tra i vari gestori di reti televisive differenti, il secondo tratta invece della necessità di garantire una pluralità all’interno della gestione stessa della televisione pubblica. Solo in questo modo la libertà di informarsi può essere davvero definita libera.
Quindi cosa ci racconta questa ultima vicenda dell’infinito rapporto tra Rai e governo? La morsa che la destra è riuscita a porre sulla televisione pubblica è un serio rischio per quanto riguarda entrambi i tipi di pluralismo sopra espressi e di conseguenza per la missione stessa dell’azienda. È necessario ricordare che la ragione principale dietro alla necessità di una televisione di stato sta proprio nel garantire un ambiente informativo e di discussione scevro dall’influenza di una qualsiasi parte politica, anch’essa sia la maggioranza.
I rapporti stretti che esistono tra la coalizione di destra e le reti Mediaset sono già sotto gli occhi di tutti da trent’anni e per questo, ora come ora, si pone il rischio dell’appiattimento del dibattito pubblico sugli stessi temi. Di fronte alla predominanza di una fortissima rete privata la Rai ha il dovere di garantire una voce diversa e libera, il più ampia e plurale possibile. Tutto questo può avvenire soltanto in un contesto in cui la gestione dell’azienda non viene inficiata da nomine politiche legate a doppio filo agli interessi e alla visione del governo. L’attuale coalizione di destra di comunicazione se ne intende, il fatto che ha deciso per il colpo di mano verso il controllo del consiglio d’amministrazione Rai la dice lunga.
Sia chiaro però che questo problema dell’indipendenza della Rai non riguarda soltanto l’attuale governo ma rappresenta l’ultima pagina di una questione che dura da decenni. Meloni sta soltanto utilizzando uno strumento posto in essere dai suoi predecessori e l’unica cosa che le si può contestare sul piano formale è il metodo gordiano con cui ha svolto l’azione.
Chi ora piange e sbotta per la Rai a guida governativa dovrebbe chiedersi perché le nomine sono decise così e perché fino a ieri ciò non rappresentavano minimamente un problema. La speranza per il futuro è che finalmente si capisca la necessità di un sistema libero da influenze di ogni tipo e si possa spingere davvero verso una televisione di tutti e non solo della maggioranza. Che piaccia o no, la Rai rappresenta ancora uno strumento importantissimo da proteggere e preservare per il benessere collettivo e una sana vita democratica.
di Michele Ferrari
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