“Tokyo, 1943: il dodicenne Mahito rimane orfano di madre durante la Guerra del Pacifico. Il padre si risposa con la sorella della moglie morta e Mahito si trasferisce con loro in una nuova casa isolata in mezzo ai boschi. Appena arrivato nell’abitazione, entrerà in contatto con un airone grigio che lo trasporterà in un mondo fantastico e pieno di misteri“
Dopo l’uscita di “Si alza il vento” dieci anni fa (2013), pareva ormai certo l’addio al mondo del cinema di Hayao Miyazaki, indiscusso maestro dell’animazione giapponese. Non soltanto per l’esplicita componente autobiografica della pellicola, quasi a chiudere un cerchio con la propria filmografia e con il proprio pubblico, ma anche per le dichiarazioni dello stesso autore, che annunciò il ritiro dall’attività artistica, lasciando dietro di sé un enorme vuoto creativo all’interno dello Studio Ghibli (la casa di produzione da lui stesso fondata nel 1985).
Ciononostante, per la gioia degli appassionati, Miyazaki tornò indietro sui suoi passi e, dopo aver diretto un cortometraggio, “Boro the Caterpillar“, uscito nel 2018, si dedicò contemporaneamente alla produzione e alla realizzazione di un nuovo lungometraggio, “Il ragazzo e l’airone“, la cui gestazione è stata lunga e complessa, essendosi prolungata per ben sette anni. Le difficoltà dovute alle restrizioni imposte dallo scoppio della pandemia da Covid-19 sono sicuramente tra queste, ma la gestazione dell’opera è stata anche volutamente rallentata per volontà dello stesso regista e dello storico produttore dello Studio Ghibli, Toshio Suzuki, che affermò di aver lasciato al suo storico collaboratore e amico completa carta bianca sui tempo di lavoro e sui costi dell’opera.
Non avendo non solo limiti nelle tempistiche ma neppure vincoli di budget, “Il ragazzo e l’airone“, come dichiarato sempre da Suzuki, è stato probabilmente il film più costoso mai prodotto in Giappone. Se ci aggiungiamo inoltre l’audace campagna promozionale ridotta volutamente al minimo, anzi limitata unicamente all’uscita di un singolo poster, senza l’uscita di alcun trailer, informazione sulla trama ecc…il rischio di un flop poteva essere preventivato. Fortunatamente così non è stato, visto che in tutto il mondo ha già incassato più di 150 milioni di dollari e vinto il Golden Globe come miglior film d’animazione (prima opera animata non in lingua inglese e animata in maniera tradizionale a riuscirci).
In Giappone il film è uscito il 14 luglio del 2023, mentre in Italia, dopo essere passato alla Festa del cinema di Roma ad ottobre, è arrivato nelle sale il primo gennaio 2024. Il titolo originale dell’opera “Kimi-tachi wa dō ikiru ka” è traducibile in “E voi come vivrete?“, ed è una citazione esplicita all’omonimo romanzo del 1937 scritto da Genzaburō Yoshino, molto famoso in Giappone e molto amato da Miyazaki stesso. Ciononostante “Il ragazzo e l’airone” non è un adattamento cinematografico del romanzo di Yoshino, ma solo una delle fonti d’ispirazione per l’opera, di cui fanno parte anche altri due romanzi, entrambi di genere fantasy: “Il libro delle cose perdute” (2006) dello scrittore irlandese John Connolly e “La torre spettrale” (1936) di Ranpo Edogawa, scrittore giapponese anch’esso adorato da Miyazaki in gioventù.
L’incipit de “Il ragazzo e l’airone” mette subito in chiaro sia la cifra stilistica che quella tematica dell’opera: siamo nel 1943 a Tokyo, durante la Guerra del Pacifico e, mentre la gente dorme, i bombardamenti degli aerei incombono ed un potente allarme risuona per tutte le case, svegliando tutti gli abitanti dal sonno e costringendoli alla fuga. Il giovane protagonista della storia, Mahito Maki, dopo essersi svegliato di soprassalto, si accorge che è scoppiato un incendio nell’ospedale in cui lavora sua madre, ed insieme al padre corre in fretta e furia per tentare di salvare il genitore.
La guerra e gli orrori che produce sono un tema tipico della filmografia miyazakiana, e anche dello stesso Studio Ghibli: si pensi oltre che al già menzionato “Si alza il vento“, anche a “Il castello errante di Howl” (2004) e soprattutto ad “Una tomba per le lucciole” (1988) realizzato da Isao Takahata. L’elemento autobiografico è fortemente presente in questa introduzione, considerato che lo stesso regista assistette da piccolo a dei bombardamenti aerei durante la guerra, che lo segnarono per tutta la vita (e che contribuiranno a forgiare il suo pacifismo). La corsa disperata di Mahito alla ricerca della madre viene man mano sempre più trasfigurata dalla regia, per dare volutamente l’effetto del calore infernale del fuoco, che scioglie e distrugge tutto ciò che è intorno ad esso, senza dare via di fuga.
Passano due anni e, dopo la perdita dell’amata madre, Mahito e suo padre lasciano la città per trasferirsi in un villaggio di campagna, dove risiede la zia Natsuko, sorella minore della scomparsa madre e soprattutto nuova moglie del padre, cosa che il ragazzo non riesce ad accettare. Qui viene preso in custodia da sette anziane domestiche, mentre il padre lavora in una fabbrica di aerei. Mahito va a scuola ma non riesce ad integrarsi con i compagni, che lo maltrattano: il ragazzino in un momento di rabbia compie un gesto autolesionista, colpendosi in testa con una pietra.
Le cose insomma non sembrano andare bene per il giovane, ma se la realtà di tutti i giorni pare riservare solo delusioni, ben presto Mahito inizierà a vedere intorno a sé e al villaggio cose sempre più stranianti e surreali: la madre che gli appare avvolta tra le fiamme, un airone cenerino che lo segue continuamente e che gli parla ripetendo le parole pronunciate dalla stessa madre, pesci e rane che gli saltano addosso. L’elemento onirico, fantastico e grottesco che prende sempre più piede nella sua vita, confondendosi con la realtà.
Il preludio di queste visioni culmina con la scoperta di una torre situata vicino casa che, leggenda vuole, fu costruita dal suo lontano prozio, scomparso nel nulla dopo essere impazzito per aver letto troppi libri. Mahito si avventura in quella misteriosa torre, accompagnato da Kiriko, una delle anziane domestiche, dopo esservi stato attratto dall’airone cenerino parlante, che sostiene che la madre del ragazzo sia ancora viva e di sapere dove si trova. Inoltre anche la zia (che aspetta un bambino) è scomparsa, e Mahito sospetta che anch’essa si sia avventurata dentro la torre.
Dopo aver scoperto che l’airone lo ha ingannato, visto che il corpo della madre che gli mostra si rivela essere una “scultura d’acqua”, che si scoglie al contatto, Mahito tenta di uccidere l’uccello con una freccia, andandoci vicino, scoprendo però che dentro il corpo dell’airone vi è in realtà una persona in carne e ossa. Come se non bastasse, la voce di un anziano proveniente dall’alto intima all’ “uomo-airone” di fare da guida al giovane Mahito, facendogli strada verso un mondo fantastico e affascinante, ma al tempo stesso pieno di insidie e pericoli.
Una rivisitazione di “Alice nel Paese delle meraviglie” e/o de “La città incantata“? Solo in apparenza, perché se è vero che lo sviluppo della vicenda può certamente ricordare in un primo momento sia il celebre romanzo di Lewis Carroll sia il precedente capolavoro della filmografia del cineasta giapponese, in realtà Miyazaki non si limita certo all’omaggio e all’autocitazione. Il mondo che costruisce è qualcosa che si avvicina per somiglianze all’Inferno Dantesco, e non è certo casuale che all’ingresso della torre vi è una citazione proprio al terzo canto dell’Inferno di Dante: “Fecemi la divina potestate“.
Dopotutto per raggiungere la torre serve avventurarsi dentro una selva, e l’ “airone-uomo” nel corso del film, seppur inizialmente controvoglia e sotto ordine (divino?), farà proprio da Virgilio al giovane protagonista. Non c’è però solo l’ispirazione dantesca dentro la pellicola, ma anche riferimenti al folklore giapponese, a partire dalla stessa figura dell’airone, che nella mitologia del Sol Levante è spesso rappresentato come un simbolo di collegamento fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Il “mondo sotterraneo” in cui si avventura Mahito è popolato da creature affascinanti ma anche inquietanti: tra le prime troviamo i warawara, anime di bambini che andranno a nascere nel “mondo di sopra” dall’aspetto tenero, mentre tra le seconde vi sono i parrocchetti giganti, che del “mondo sotterraneo” sono i governatori, capeggiati da un Re, che uccidono e mangiano chiunque osi entrare in contatto con loro. Vi sono poi dei pellicani parlanti, che sono costretti a cibarsi dei warawara per vivere, in quanto i pesci (loro nutrimento principale) stanno sempre più scarseggiando.
Se la regia di Miyazaki nell’animare il “mondo reale” si concede volutamente ad uno stile quasi impressionista, per esaltare al massimo il paesaggio circostante, quando approda nel “mondo sotterraneo” la sfera surrealista prende il sopravvento, e sia gli elementi naturali (vento, terra, fuoco, elettricità) che le creature che compongono quell’universo, sembrano trovarsi in uno stato di “perenne agitazione”, tra cambi di forma, esplosioni di colori e movimenti incessanti. Le musiche di Joe Hisaishi, fedelissimo compagno di avventure del nostro regista (questa è la loro undicesima collaborazione) poi fanno il resto, con il loro stile minimale e malinconico ma al tempo stesso dolce e travolgente, e sono, come sempre, il miglior commento possibile alle immagini di una pellicola come questa.
E’ un mondo popolato principalmente da morti, come appunto l’Inferno di Dante, quello in cui si è avventurato Mahito: a rivelare ciò al protagonista è una donna che fa la pescatrice di professione, occupandosi di nutrire i warawara prima della loro “salita in cielo”. Questa donna nient’altri non è che la controparte giovanile di Kiriko, la domestica che aveva seguito il giovane nella torre, e che gli fa da seconda guida per aiutarlo a ritrovare la madre e la zia.
Madre che poi ritrova in una veste molto particolare, ovvero sotto forma di una giovane e potente maga di nome Himi, il cui compito nel “mondo sotterraneo” è quello di proteggere i warawara dagli attacchi dei pellicani, grazie all’aiuto del suo potere, capace di generare delle fiamme dal corpo. Una sorta di “contrappasso positivo” (sempre rimanendo in tema dantesco), visto che le fiamme prodotte dalla guerra erano state la ragione del suo decesso, e che ora sono invece fonte principale della sua forza.
Il giovane ritrova anche Natsuko, addormentata all’interno di una stanza: cerca di avvicinarsi a lei, ma viene attaccato da dei pezzi di carta animati, che lo allontanano dalla zia e lo avvolgono, mentre la voce di quest’ultima gli intima di andarsene via. Il “contrappasso” di cui è vittima Mahito è legato ovviamente alla sua diffidenza nei confronti della sua “nuova madre”, come mostrato esplicitamente in una precedente scena del film, in cui la zia, costretta a letto malata, chiede di vedere il volto del nipote ma quest’ultimo, una volta trovatosi vicino a lei, fugge via.
Mahito sconvolto tenta disperatamente di (ri)portare la madre nel suo mondo (e dunque “in vita”), ma lei glielo impedisce: il cerchio della vita deve fare il suo corso, e il suo compito (il dare alla luce il figlio) e il suo destino (quello di morire tra le fiamme) sono segnati e non si possono cambiare. Invita però il suo futuro bambino a continuare a vivere la sua nuova vita con la sorella Natsuko e ad accettarla come “nuova madre”.
Il viaggio dentro il “mondo sotterraneo” e la conseguente discesa agli inferi per ricercare l’amata madre da un lato e riconciliarsi con la zia dall’altro, sono per Mahito un occasione per elaborare il lutto ed accettare il corso della vita: al giovane, sempre parlando di contrappassi, è servito addentrarsi nel “mondo della morte” per cercare non tanto il senso della vita, quanto per riuscire ad apprezzare quest’ultima, e tutte le opportunità che essa pone di fronte a sé. Anche quando la vita pone degli ostacoli che inizialmente paiono insormontabili, in realtà possono essere sempre superati, grazie alla propria forza di volontà e all’amore per sé stessi e per gli altri. Un’opera dal messaggio convintamente ottimista.
La parte più significativa del film è però l’incontro che Mahito tiene con il suo prozio (ovvero l’anziano che aveva dato ordine all’airone di guidarlo nel “mondo sotterraneo”): lui è sempre stato il creatore, il reggente e l’equilibratore di quel mondo assurdo in cui il suo giovane discendente si è avventurato. Proprio per questo il prozio, seduto su un tavolo in cui vi sono delle forme geometriche incastonate una sopra l’altra, ovvero il precario simbolo di quell’universo (basta spostarne una sola di esse per cambiare del tutto la fisionomia di quel mondo) lo vorrebbe come suo erede, e lo ha fatto entrare di proposito nel “suo” regno, per cercare finalmente qualcuno a cui possa affidare un compito così fondamentale, quello di un “giovane Dio”, essendo ormai troppo vecchio e stanco per portarlo avanti.
Ciononostante il ragazzo rifiuta la proposta del suo antenato, preferendo tornare nel “mondo reale” e lasciando morire definitivamente quell’intero universo, che poi nella parte finale del film crollerà del tutto. Una conclusione pessimista quindi? Superficialmente potrebbe apparire così, ma invece non è nient’altro che la perfetta chiusura del cerchio della vita.
La morte è inevitabile, e non potrà mai esistere un utopico mondo perfetto da cui cercare di sfuggire da essa, considerato poi che l’uomo in quanto essere “imperfetto” per eccellenza, con i suoi vizi perenni, non riuscirà mai a crearlo il mondo perfetto. Tuttavia senza la morte non esisterebbe neppure la vita, e Mahito si costruirà comunque da solo la propria esistenza (e dunque il “suo” mondo): sicuramente imperfetto, ma cercando sempre di fare meglio di chi lo ha preceduto, per quanto difficile possa essere.
Inevitabile non leggere in questo finale una riflessione sul futuro stesso di Miyazaki e dello Studio Ghibli. Il Maestro infatti con “Il ragazzo e l’airone” ha deciso finalmente di ultimare il suo testamento artistico, sapendo benissimo di non riuscire più ad andare avanti nella creazione dei suoi affascinanti mondi, e lasciandosi dunque definitivamente alle spalle il suo lavoro da artista, per vivere in pace gli ultimi anni di vita, senza insistere nella ricerca superflua di un possibile erede, perché semplicemente un suo erede non può esistere.
E’ giusto che le nuove generazioni di artisti che verranno dopo di lui non sentano il peso di un’eredità impossibile da mantenere, o peggio ancora di provare ad imitarla o confrontarla. Il ciclo della vita segue di pari passo quello dell’arte, e alla “morte” del grande vecchio maestro, gli allievi possono soltanto guardare avanti e seguire il loro personale percorso. Ringraziandolo però per tutti i fantastici mondi che ci ha donato. Ad maiora semper.