“Una famiglia tedesca apparentemente normale vive in una grande abitazione con piscina e giardino. La loro quotidianità è scandita dalle gite in barca, il lavoro d’ufficio del padre, i tè della moglie con le amiche e le domeniche passate a pescare al fiume. Peccato che il capofamiglia sia Rudolf Höss, comandante nazista incaricato di gestire il campo di concentramento di Auschwitz, e la deliziosa villa in cui vive con la sua famiglia in una surreale serenità è situata proprio al confine con il campo stesso, a due passi dall’orrore.”
Una carriera da regista lunga 24 anni, per realizzare soltanto quattro film, tutti estremamente interessanti, e tutti estremamente controversi, ma dotati di una cifra stilistica più che riconoscibile. L’inglese Jonathan Glazer si è fatto attendere a lungo (la sua precedente opera “Under the Skin” è uscita ormai più di dieci anni fa, nel 2013), ma ne è valsa assolutamente la pena, visto il risultato: sì perché “La zona d’interesse” (2023), uscito nella sale italiane il 22 febbraio, dopo essere stato presentato allo scorso Festival di Cannes (dove ha vinto il Gran Premio della Giuria), è una di quelle pellicole che non possono lasciare indifferenti, sia per il tema trattato e, soprattutto, per come viene messo in scena.
Tratto liberamente dall’omonimo romanzo dello scrittore britannico Martin Amis (deceduto lo scorso anno), “La zona d’interesse” narra la vicenda del comandante del campo di concentramento polacco di Auschwitz, il gerarca nazista Rudolf Hoss (interpretato da Christian Friedel) che, insieme alla moglie Hedwig (Sandra Huller) e ai loro cinque figli, ha costruito intorno al campo una lussuosa residenza, dotata di un grande e fiorito giardino oltre che di una piscina, denominata “Interessengebiet” (area/zona di interesse, appunto).
La loro vita scorre apparentemente tranquilla, come quella di una qualsiasi famiglia borghese: gite al fiume con i figli, passeggiate a cavallo, feste in piscina… Tutto normale, se non fosse che accanto a loro, ben separato da un muro, operi una macchina di morte e distruzione, con il marito che si occupa della sua “gestione” e la moglie che lo asseconda, ben consapevoli di cosa accade al di fuori del loro “paradiso artificiale”, in cui si trova un inferno disumano.
La dolorosa tematica di Auschwitz e dell’Olocausto è stata affrontata molteplici volte dal mondo del cinema, producendo opere di notevole spessore drammatico come “Schindler’s List” di Steven Spielberg e “Il pianista” di Roman Polanski, con rare eccezioni come il nostro “La vita è bella” di Roberto Benigni, che cercava invece di raccontare l’orrore in maniera più “leggera”. Mai però una pellicola aveva rappresentato tale tematica in questo modo: non tanto per la scelta di tenere la terribile vicenda fuori campo, ma per aver privilegiato il senso dell’udito rispetto a quello visivo.
Sì perché la grandezza e l’originalità de “La zona d’interesse” sta nel riuscire ad inquietare non con le immagini, ma con i suoni. Mentre Rudolf, Hedwig, i loro figli e i loro domestici passano il tempo dentro e fuori la villa, svolgendo le loro attività quotidiane come se nulla fosse, si percepiscono chiaramente i terrificanti rumori di ciò che accade all’interno di quell’inferno: gemiti, spari, urla, il suono di una fornace perennemente accesa, e ancora altre urla e altri spari…Così tutti i giorni e tutte le notti.
Se questo film fosse associabile ad un genere musicale, sarebbe sicuramente di genere dark ambient: una perenne inquietudine che attraversa uno scenario apparentemente tranquillo, in cui tutto pare in pericolo di esplodere da un momento all’altro. Oltre al clamoroso lavoro del sonoro, da apprezzare per la riuscita dell’atmosfera opprimente che domina il film, sono anche le musiche della compositrice britannica Mica Levi (che aveva già collaborato con Glazer per “Under the Skin“), caratterizzate da riverberi minimali e angoscianti.
Il regista inglese rappresenta l’anormale quotidianità della famiglia Hoss privilegiando inquadrature asettiche, tenendosi sempre a debita distanza dai personaggi (i primi piani sono totalmente assenti), che vengono ripresi da ogni angolazione possibile, tra la casa e il giardino. Gli eventi della famiglia e le loro azioni vengono messe in scena come se si trattasse di un reality show, riuscendo ad esaltare pienamente la recitazione degli attori, caratterizzata da una “gelida naturalezza”.
“La zona d’interesse” è anche un’ennesima conferma della “banalità del male”, concetto filosofico elaborato dalla filosofa e giornalista tedesca Hannah Arendt nel suo omonimo e celebre saggio, datato 1963 (e mai così attuale, a più di 60 anni di distanza). Il soggetto del reportage realizzato dalla Arendt era il gerarca nazista Adolf Eichmann, che venne condannato a morte nel 1962 dopo un processo per genocidio tenutosi a Gerusalemme: l’origine della malvagità di Eichmann non era un qualcosa di “innato” o di “naturale” (sempre presente nel suo io), ma semplicemente partiva da una scelta “ideologica” e “lavorativa”, portata avanti come se fosse una qualsiasi professione, ignorando volutamente le conseguenze tragiche delle proprie azioni.
E così è anche il generale di Auschwitz Rudolf Höss, che viene rappresentato nel film come un burocrate qualsiasi, mediamente soddisfatto della sua vita e della sua famiglia, che come tutti pensa “in grande” e aspira a scalare le gerarchie della sua professione, per diventare ancora più potente e influente (cosa che poi nel film riesce ad ottenere). Rudolf se ne frega ampiamente delle pesanti responsabilità etiche di quello che fa: le ignora, per motivi appunti ideologici, ma anche per pura convenienza lavorativa, perché è grazie a questo lavoro moralmente abietto che può permettersi un alto tenore di vita, e di occupare una posizione di potere.
In tutto questo muro di indifferenza, un solo personaggio nel corso dell’opera ha il coraggio di “vedere” ciò che accade al di fuori dell’ordinario, che cerca di capire l’origine di quelle urla e di quegli spari: è la madre di Hedwig che, ospite della casa, viene svegliata nel cuore della notte da quei rumori e dalle luci abbaglianti delle fornaci. Il risultato? La madre sparisce il giorno stesso dall’abitazione, per non tornarci mai più: una volta che si squarcia il “velo di Maya dell’orrore”, non si può più far finta di niente.
La zona d’interesse è una pellicola di non facile visione, sicuramente: non dà compromessi allo spettatore, è radicale sia nello stile che nel racconto, e riesce ad essere al contempo estremamente realistica ed estremamente grottesca. A suo modo, resterà, meritatamente, nella storia della settima arte.