Civil War: la balcanizzazione degli Stati Uniti e la crisi dell’informazione

In un futuro distopico, gli Stati Uniti si trovano invischiati in una sanguinosa guerra civile, tra la fazione occidentale, capeggiata dagli Stati di Texas e California, e gli Stati fedeli al Presidente. Quest’ultimo si trova ormai assediato dai gruppi armati indipendentisti fuori dalla Casa Bianca, ed ha ormai scarse possibilità di vivere. In questo clima di caos e violenza, un gruppo di fotoreporter attraversa le zone di conflitto e prova a catturare le testimonianze di quanto sta avvenendo, con l’obiettivo di intervistare per l’ultima volta lo stesso Presidente.”

Gli USA nel bel mezzo di una guerra “a casa loro”

Bombardamenti aerei, palazzi distrutti e sventrati, scontri a fuoco, attentati, tortura e pulizia etnica. Questo lo vediamo oggi (come ieri e come domani) in maniera ormai onnipresente in tante parti del mondo, dall’Europa, con il perdurare incessante del conflitto tra Russia e Ucraina, e in Oriente, con quello quello tra Israele e Palestina, e in tante altre parti dell’Asia e dell’Africa (Siria, Somalia, Yemen ecc…).

Ebbene in “Civil War“, quarto film del regista britannico Alex Garland, questo scenario lo vediamo anche negli Stati Uniti, un Paese che la “cultura della guerra e delle armi” l’ha sempre avuta (e foraggiata), ma che, esclusa la ben nota Guerra di Secessione di metà 800, non ha certamente mai avuto conflitti nel suo vasto territorio. In “Civil War” invece la guerra, e tutti gli orrori sopramenzionati che si porta dietro, approda prepotentemente nel territorio a stelle e strisce: è una distopia certo, ma quanto è effettivamente lontana dalla realtà?

Non così tanto, a giudicare da quanto oggi siano così divisi e così “poco uniti” gli States, in scontri ideologici tra “woke” e “tradizionalisti“, ma anche tra “pacifisti” e “guerrafondai” (basti dare un’occhiata alle proteste nei campus universitari in corso, contro il sostegno USA ad Israele nella guerra contro la Palestina), il cui contorno è la forbice sempre più crescente tra gli Stati “ricchi” (quelli delle coste East e West), che diventano sempre più ricchi, e quelli più “poveri” (molti degli Stati situati al centro del Paese), che ovviamente sono sempre più in difficoltà economica. E ci sarebbero da menzionare anche le sempre mai sopite (e anch’esse sempre più crescenti) tensioni razziali…

Come è potuta scoppiare però una guerra civile negli USA? Beh la risposta non la sappiamo, e nel film non ci verrà mai fornita alcuna delucidazione in merito sulle cause e le motivazioni di un qualcosa di così tragico. Si conoscono però gli schieramenti in campo, ovvero gli Stati “ribelli” della parte occidentale, capeggiati da Texas e California, e quelli “unitari” della parte orientale, fedeli al Presidente a alla Costituzione. Queste sono le uniche informazioni che lo spettatore possiede, perché a Garland non interessa raccontare la nascita e le ragioni che portano ad un conflitto, bensì ci mostra unicamente le conseguenze che un conflitto di tale portata ha nei territori colpiti, nella psicologia delle persone, e soprattutto come esso viene raccontato sui media.

I protagonisti dell’opera non sono infatti dei soldati, ma dei giornalisti, o meglio dei fotoreporter, che hanno come missione principale quella di dirigersi verso Washington, per intervistare il Presidente, ormai condannato alla capitolazione, visto il crescente avanzare delle truppe ribelli occidentali verso la Capitale. Tra essi troviamo l’esperta fotografa di guerra Lee Smith (interpretata da una strepitosa Kirsten Dunst), il suo collega Joel (interpretato dall’attore brasiliano Wagner Moura), l’esperto giornalista Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la giovanissima e aspirante fotoreporter Jessie Cullen (Cailee Spaeny). Durante il loro viaggio, una volta partiti da New York, assisteranno in prima persona a tutti i più terribili orrori che la guerra si porta dietro di sé.

Ci aveva già provato Joe Dante ha raccontare una possibile guerra civile in suolo statunitense, con il bellissimo (e purtroppo dimenticato) “La seconda guerra civile americana” (1997): allora il regista di “Gremlins” si immaginava lo scoppio di un conflitto nel Paese a causa delle tensioni multietniche, e raccontava il tutto in maniera ironica e grottesca. In “Civil War” invece il tono è tragico e cupo: non c’è assolutamente nulla di cui ridere, non più ormai. Le cause di questa guerra, come sopramenzionato, non si conoscono, e andando avanti nel corso della pellicola, si assiste soltanto alla morte di qualsiasi morale e all’annullamento di qualsiasi etica, per far spazio alla cieca violenza e alla distruzione di territori, edifici e uomini.

Chi ha ragione o chi ha torto non conta: gli Stati Uniti si trovano ormai in preda ad una vera e propria “balcanizzazione“, in cui, come nelle guerre jugoslave, ci si spara tra vicini di casa, ci sono cecchini sopra le stesse abitazioni e i bombardamenti sono all’ordine del giorno, così come le violazioni dei diritti umani. Ed è qui, in tempo di guerra, che vengono fuori gli istinti più bradi e insensibili dell’uomo, come il razzismo del soldato con gli occhiali rossi (interpretato da un allucinato Jesse Plemons), che uccide senza pietà due reporter perché “non sono americani, ma asiatici“, e si sente pienamente giustificato nel farlo.

In tutto questo, i giornalisti protagonisti, tramite le loro foto, seguendo pedissequamente le azioni dei soldati (ribelli? unionisti? non è importante), documentando ogni loro movimento/sparatoria/tortura, provano in primis a provare a dare un senso a tutto quello che vedono, ma non vi riescono neanche loro. Le loro immagini, le fotografie che scattano dovrebbero dare una testimonianza del reale, ricercare una narrazione oggettiva dei fatti, ma in un’epoca come quella odierna, in cui l’informazione è sempre più polarizzata, retorica e manipolabile, questo risulta ormai quasi impossibile.

Garland riflette anche su questo in “Civil War“: sullo stato dell’informazione, e quindi delle immagini, oggi, su come possano effettivamente in un contesto privo di etica e morale (ma non solo), avere un punto di vista obiettivo e neutrale, che è ciò che in teoria dovrebbe essere la “missione del giornalismo”. E invece quelle fotografie e quelle immagini vengono sempre più distorte dal loro contesto, utilizzate e abusate per difendere le proprie ragioni e le proprie posizioni, per portare acqua al proprio mulino, per dare sostegno dogmatico alla propria ideologia.

Dopotutto è comune dire che in guerra “la prima cosa che muore è la verità“, e “Civil War” ci mostra esattamente questo: la crisi dell’informazione nel caos delle armi e delle bombe. Garland ce lo racconta adottando uno stile a metà strada tra la cronaca documentaristica e il blockbuster hollywoodiano, senza eccedere mai nella spettacolarità, ma riuscendo perfettamente a dosare il ritmo della storia, dando il giusto spazio alle psicologie dei personaggi, e a non enfatizzare neanche le scene più cruente.

E’ destinato inevitabilmente a far discutere e far parlare di sé per molto tempo “Civil War” (specie come ovvio in suolo americano), ma non si tratta di un film (come superficialmente può sembrare) costruito a tavolino per essere “provocatorio”, tutt’altro: è estremamente lucido nel raccontare una follia distopica mai così vicina alla realtà.

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