“Gary Johnson è un’insegnante di filosofia e psicologia all’università di New Orleans, un tipo ordinario e un po’impacciato, che tuttavia nasconde una doppia identità: lavora infatti per la polizia come agente sotto copertura, fingendo di essere un sicario per far arrestare coloro che vorrebbero commissionargli un omicidio. Tutto sembra filare liscio, visto che Gary ha successo nel suo secondo lavoro, tuttavia quando si presenta a lui una donna bella e indifesa, le cose prederanno una piega differente e la sia vita verrà totalmente stravolta, nel bene e nel male…“
Richard Linklater è uno dei nomi di punta del cinema d’autore statunitense degli ultimi 30 anni, un cineasta la cui carriera però è quasi inclassificabile, essendo costantemente in bilico tra cinema indipendente a basso budget, cinema hollywoodiano più “commerciale” e sperimentazioni visive e narrative coraggiose e stranianti (un destino se vogliamo condiviso con i suoi “colleghi” Gus Van Sant e Steven Soderbergh).
Opere come “Slacker” (1990) e “Dazed and Confused” (1993) appartengono certamente alla prima categoria, diventate entrambe dei cult assoluti soprattutto tra i giovani americani dell’epoca (il primo è considerato una delle opere manifesto della cosiddetta “Generazione X“), ma anche la trilogia romantica dei “Before“: “Before Sunrise“(1995), “Before Sunset” (2004) e “Before Midnight“(2013).
Tre opere ambientate a diversi anni di distanza l’una dall’altra, ma girate con gli stessi attori protagonisti (Ethan Hawke e Julie Delpy), che riescono perfettamente a raccontare lo sviluppo di una relazione amorosa nel corso di diversi momenti della vita (la gioventù, la maturità e la vecchiaia). Se si parla di sperimentazione sul tempo però è impossibile non menzionare “Boyhood” (2014), opera girata nel corso di ben 12 anni, con lo stesso attore protagonista (Ellar Coltrane), seguito dall’età di 6 anni sino ai 18, in cui il passaggio dall’infanzia alla maggiore età è portato in scena dal regista texano letteralmente in “tempo reale”.
Se ci aggiungiamo poi opere cult ma di grande successo mondiale come “School of Rock” (2003), e film d’animazione sperimentali sia nella forma che nel racconto come “A Scanner Darkly” (2006) e “Waking Life” (2001), beh ci accorgiamo che la carriera del regista texano è una delle più particolari della storia del cinema. In tutto questo, la sua ultima pellicola “Hit Man – Killer per caso” (2023), in che territorio si colloca? Guardando unicamente la superficie si potrebbe pensare facilmente ad un’opera più “commerciale”, ma osservando attentamente ci si accorge che le cose sono più complicate di come possono inizialmente apparire…
La storia, ispirata parzialmente (“una storia quasi vera” si legge nell’introduzione del film) da un articolo di giornale pubblicato circa 20 anni fa e letto dal regista, narra la curiosa vicenda di Gary Johnson (interpretato da un mai così convincente Glenn Powell), un professore universitario di filosofia e psicologia dell’università di New Orleans, che vive una vita ordinaria e anonima, divisa unicamente tra il lavoro da insegnante e la compagnia dei suoi due gatti, Es ed Io (scelta dei nomi non casuale ovviamente).
Gary Johnson tuttavia, non è ciò che sembra, poiché nel “tempo libero” ha un secondo lavoro, che è de facto una vera e propria doppia vita: collabora con la polizia in qualità di finto sicario professionista, il più richiesto della città tra l’altro. Lavora infatti come agente sotto copertura, in cui finge di essere un killer a pagamento, venendo contatto da diversi clienti che gli commissionano omicidi di vario tipo (la moglie o il marito infedele i più richiesti), utilizzando per le occasioni pseudonimi differenti e anche travestimenti di ogni tipo, a seconda della tipologia di cliente che si ritrova (e che fa poi arrestare dalla polizia una volta che svela le proprie intenzioni).
Tutto pare procedere per il meglio in questo incarico particolare, fino a quando Gary fa la conoscenza di una donna di bella presenza e soprattutto molto impaurita, Madison (interpretata da Adria Arjona), che gli commissiona l’omicidio del marito violento. Gary, che per l’occasione si presenta a lei come Ron, si invaghisce della donna e decide di lasciarla andare per darle “una seconda possibilità”, promettendo poi di incontrarla di nuovo, se si presentasse l’occasione: l’occasione si ripresenta, e tra i due scoppia l’amore, che però metterà in pericolo le vite di entrambi…
Come precedentemente affermato, “Hit Man – Killer per caso” può ad una prima visione risultare un’opera che riesce ad intrattenere molto bene (ed è perfettamente vero) ma che ha ben poco da dire (e questo è falso): in realtà il nuovo film di Richard Linklater (co-sceneggiato assieme allo stesso Glenn Powell) è più intelligente e profondo di quanto possa sembrare, ed ha ben poco a che spartire con il cinema d’intrattenimento hollywoodiano contemporaneo, che almeno nel 90% dei casi è davvero roba di poco conto.
“Hit Man – Killer per caso“, sfruttando abilmente il canovaccio del noir e della commedia romantica, affronta in maniera perfetta il tema della ricerca dell’identità e soprattutto, strettamente collegato ad essa, della ricerca della libertà. Il nostro protagonista, il professor Gary Johnson, vive una vita che non lo soddisfa e non lo stimola, in cui si sente intrappolato e soffocato, e per cercare in tutti i modi una nuova identità, un nuovo Io, decide di collaborare con la polizia e fingersi un killer a pagamento.
Gary si immedesima perfettamente in questo nuovo e strano incarico, dimostrando grandi capacità recitative e mimetiche: ad ogni incontro con un nuovo “cliente” disposto ad assoldarlo, infatti, Gary cambia continuamente la sua identità, presentandosi ogni volta con un diverso nome, un diverso travestimento e un diverso modo di parlare ed esprimersi, a seconda della diversa estrazione sociale di chi ha di fronte.
Tuttavia questi continui cambi di identità, finiscono alla lunga per far perdere al professore/finto sicario il proprio Io, facendolo ritornare al punto di partenza. Le sue azioni nel ruolo di killer si ripetono meccanicamente tanto quanto le sue lezioni universitarie, rendendolo nuovamente imprigionato in indefinite identità precostruite per l’occasione, e gettate al vento in pochi minuti, una volta che il lavoro è finito e la polizia ha incastrato il “cliente” di turno. Gary si trova ora intrappolato non più in una, ma bensì in due vite da cui tentare la fuga, per cercare/tentare di trovare una tanto agognata libertà.
L’incontro che cambia definitivamente la vita al professore/finto sicario è quello con la bella Madison, una donna in fuga da un marito violento (e dunque anche lei in cerca di una nuova vita/identità/libertà): invece che adempiere ai suoi doveri, Gary, sotto lo pseudonimo di Ron, la lascia andare e si promette di rivederla, contravvenendo agli ordini del suo lavoro, ma per una volta (la prima?) nella sua vita, rendendosi forse conto di avere fatto ciò che per lui era più giusto, cioè ciò che davvero lo può far sentire libero, ovvero l’amore per una persona.
Quando inizia a farsi trascinare dalla passione per Madison, pur incastonato ancora in una falsa identità (quella di Ron, l’affascinante sicario che con le donne ci sa fare), Gary si sente finalmente libero, e quella vita gli piace davvero troppo, ma gli porterà prevedibilmente dei grossi guai con il suo lavoro per la polizia. Dopotutto se c’è una cosa per cui vale davvero la pena lottare e fare sacrifici, quella è davvero la libertà, e Gary farà di tutto nel corso del film per non tornare indietro, ed essere finalmente libero di vivere una vita che fino a poco tempo prima avrebbe solo sognato nel suo Es (l’inconscio freudiano).
“Hit Man – Killer per caso” è cinema d’intrattenimento intelligente, ormai sempre più raro da trovare, specialmente, come detto, dalle parti di Hollywood, in cui Linklater passa con disinvoltura nei territori della commedia romantica, per arrivare poi a flirtare abilmente con il noir, riuscendo a muoversi tra gli stereotipi di entrambi i generi, senza mai abusarne, ma arrivando anche a decostruirli. Basti solo pensare al clichè del sicario, tipico appunto dei racconti noir, che in questo film Linklater parodizza in maniera velata sin dall’introduzione della sua opera, quando mette in scena gli spezzoni di varie pellicole aventi dei killer come protagonisti, facendo aggiungere per bocca di Gary che quella del sicario a pagamento nient’altro è che “un’invenzione del cinema“.
Tutto vero, ma Linklater è un regista che è ben consapevole del potere della settima arte, nella sua capacità di rielaborare la realtà, come in questa storia, che non a caso è “quasi vera“: liberamente ispirata, per restare in tema.