Trap: le trappole dello sguardo e della mente

Cooper Adams, di professione pompiere, accompagna sua figlia Riley al concerto di una famosa popstar, Lady Raven, come premio per gli ottimi voti scolastici. Una volta entrato dentro l’arena in cui si svolgerà l’evento però, si accorge che la polizia è presente in gran numero in quasi ogni angolo del concerto, perché in realtà quell’evento nient’altro è che una trappola degli stessi agenti per catturare un feroce serial killer lì presente, noto come Il Macellaio…

Un padre di famiglia con l’amata figliola al concerto: tutto normale in apparenza…

Trap è senza dubbio uno dei lavori più esplicitamente teorici mai realizzati da M. Night Shyamalan, in cui il lavoro sullo sguardo (dello spettatore in primis), sulle immagini in movimento generate dai nuovi media (smartphone e telecamere di ultima generazione) e sulla cosiddetta “verità” che essi dovrebbero in apparenza garantire, sono le fondamenta per la totale comprensione dell’opera.

Il 16esimo lungometraggio del regista indiano-statunitense è una “trappola” per la mente del pubblico, che viene catapultato in una realtà in cui tutto pare essere chiaro quasi sin da subito, ma che invece si rivela più complicata del previsto, per nulla facile da decifrare, in cui la manipolazione psicologica dei contesti in cui ci si trova e dei personaggi che si incontrano, è essenziale per la riuscita di un inganno così grande.

L’inganno si svolge all’interno di un’arena, in cui migliaia di persone (principalmente giovani adolescenti) sono in attesa del concerto della popstar Lady Raven: tra di loro ci sono un un padre di nome Cooper, che di professione fa il vigile del fuoco, che accompagna la figlia Riley all’evento, come regalo per i buoni voti presi a scuola (un grande classico). C’è però sin da subito qualcosa che non va, e Cooper se ne accorge: c’è un numero eccessivo di poliziotti presente al concerto (d’accordo la sicurezza per un evento di così grande portata, ma il loro numero è davvero troppo elevato…).

Cooper chiede spiegazioni ad un venditore di magliette, che gli rivela tutto quanto: i poliziotti sono lì per catturare un pericoloso serial killer chiamato “Il Macellaio“, dopo aver saputo della sua presenza al concerto, e tutto l’evento è in realtà una grande trappola per finalizzare la sua cattura… Non ci mette molto Shyamalan a svelarci il “colpo di scena” del film (presente per la verità già nei trailer), a ribaltare immediatamente il punto di vista dell’intera opera: basta semplicemente una singola scena, in cui Cooper va in bagno, accende il telefono, e vediamo un povero ragazzo, ripreso da una videocamera collegata allo smartphone del pompiere, che si dimena disperato rinchiuso in una cantina. L’identità del “Macellaio” è presto rivelata, ma farà di tutto per non farsi scoprire.

Quello che ci si trova di fronte non è un serial killer come gli altri, perché Cooper/Macellaio (interpretato da un Josh Hartnett ma così convincente prima d’ora) è abilissimo, come precedentemente menzionato, a giocare con le apparenze, e nei personaggi che incontra (e agli occhi dello spettatore) deve arrivare unicamente l’immagine di un padre di famiglia modello, che aiuta le persone in difficoltà, fa di tutto per far felice la giovane figlia (riuscendo persino a farla salire sul palco di Lady Raven), si fa voler bene da chiunque e così via (oltre ad essere un vigile del fuoco, che negli USA è un lavoro che ti fa automaticamente qualificare come una brava persona).

Con questa sua innata capacità di “essere buono”, di celare così sapientemente il suo lato oscuro, Cooper riesce ad ingannare tutti, dallo staff del concerto sino alla stessa polizia, che non sospetta minimamente di lui neppure quando se lo trova accanto, e riuscendo in tal modo ad ingannare anche lo spettatore, quasi a fargli venire il dubbio che forse la polizia si possa essere sbagliata. L’inganno di Cooper è l’inganno delle immagini, o sarebbe meglio dire la trappola delle immagini contemporanee: la mole di informazioni che ogni giorno riceviamo, tra social e altro ancora, ci ha reso paradossalmente incapaci di guardare i dettagli, di andare oltre le apparenze, di decifrare la realtà stessa.

Ciononostante Shyamalan non è un “apocalittico” nel suo approccio con i mass media, ma neanche un “integrato“; al massimo lo si potrebbe definire come “neutrale”: per il regista indiano-statunitense infatti la comunicazione di massa non è in sé cattiva o buona, ma dipende dal singolo utilizzo che un individuo ne fa. Quando Cooper incontra Lady Raven dopo il concerto le fa notare (dopo avergli rivelato la sua identità) che gli basta premere un pulsante del suo telefono per uccidere la povera vittima rinchiusa nella cantina, ma la stessa popstar, dopo essere stata invitata a casa della stessa famiglia di Cooper, su insistenza della figlia, riesce a salvare la situazione con una live su Instagram, in cui lancia un messaggio ai suoi fan per scoprire dove si trova la vittima della tortura di Cooper.

Trap infatti non si ferma unicamente al concerto, ma nella seconda parte si passa attraverso altri “luoghi trappola”, una volta che da quell’arena si riesce ad uscire: dalla casa della famiglia Cooper alla limousine di Lady Raven, in quasi tutta l’opera domina la claustrofobia di luoghi sempre più ristretti e con sempre meno gente (dalla folla urlante del concerto, al piccolo nucleo familiare pronto a destabilizzarsi), in cui ogni volta un personaggio pare mettere sotto scacco l’altro, attraverso continui colpi di scena, ben gestiti dalla regia di Shyamalan, come sempre un maestro nella costruzione della tensione.

Regia e narrazione che devono grandi debiti a due pesi massimi del genere thriller, ovvero Brian De Palma e Alfred Hitchcock: l’utilizzo continuo della profondità di campo in particolare richiama il lavoro del regista italoamericano, mentre la gestione della suspense è chiaramente di matrice “hitchcockiana“. Lo stesso personaggio di Cooper/Macellaio poi non può che ricordare il celeberrimo Norman Bates di “Psycho“: un uomo all’apparenza buono come il pane, che però nasconde un lato oscuro, accomunati soprattutto dal trauma della figura materna, mai risolto e che gli ha portati alla follia omicida (oltre ad un “sorriso finale” beffardo e maligno che chiude entrambi i film).

Al di là di qualche forzatura di trama nella parte finale (che può legittimamente destare perplessità), Trap è un’opera ampiamente riuscita: un film “di genere” che però riesce ad affrontare in maniera non banale problematiche contemporanee, come l’onnipresenza del male nella nostra società, e la sempre più difficile ricerca della verità nel marasma dell’informazione di oggi. Un film d’Autore, insomma.

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